martedì 8 settembre 2015

INGRATA

...vita vissuta da una chiunque qualsiasi...

Racconto la loro storia, non diversa da quella di molti altri della loro generazione.
Giovani ospiti di una Milano progressista nella metà degli anni ’60. Giovani ragazzi, grandi bambini, troppo grandi per viversi appieno anche il ’68, con i suoi tumulti e la ribellione, con quell’atmosfera che alla lunga avrebbe favorito un po’ l’apertura mentale.
Loro nel ’68 si sono sposati, dopo anni di fidanzamento. Che una volta era una cosa seria, fin troppo. Avevano già previsto dove avrebbero vissuto, come si sarebbero mantenuti, quanti figli volevano, come li avrebbero cresciuti.
Tutto programmato, tranquillo, sicuro. Tutto come desiderato. Ma non da loro. Che forse cosa desideravano davvero non se lo sono mai chiesto.
Loro che, oggi, anziani e depressi, si difendono da qualsiasi cosa dietro ai “tu non lo sai i sacrifici che abbiamo dovuto fare noi, li farei fare a voi..”. Io che risponderei che tutti quei sacrifici in realtà, cari miei, li avete forse più voluti fare che dovuti, inseguendo un concetto di normalità e giusto vivere che acquietava le vostre coscienze e consolava quello che era l’unico sussulto della vostra anima. Apparire. Apparire una famiglia felice, apparire una famiglia media, apparire per appartenere. Appartenere a una borghesia che di borghese aveva ben poco, appunto tanta apparenza e pochi libri, tanta apparenza e tante quinte elementari.
Che non ci sarebbe stato niente di male in quelle quinte elementari, se soltanto fossero state accettate. Da voi stessi!
Quindi un lavoro sicuro, che tutt’oggi lui pagherebbe con la vita a vedercene avere uno a noi, senza per nulla pensare che noi siamo cresciuti completamente all’oscuro da questo concetto e che magari ci va anche stretto.
Quindi, un lavoro sicuro e il più standard possibile. Tranquillo. Tranquilla apparenza.
Una casa il più casa possibile. Tende, tappeti, carta da parati, soprammobili. Un giardino e possibilmente un cane.
Figli. Almeno due. Nati, battezzati di bianco vestiti, i calzettoni con i buchi fino al ginocchio, il gilet, la camicia a quadretti, le ballerine di vernice. Ma solo per i giorni di festa.
Serate serene e tranquille. La cena come rito, tutti insieme, con la tv accesa, la sigla del telegiornale come buon appetito.
Tutto molto standard. Rassicurante, tranquillo. Perfettamente borghese.
La gita domenicale, dopo la messa spesso, o i pasticcini dopo pranzo, sempre gli stessi. Sempre lo stesso, il pranzo domenicale, le solite portate.
Le visite ai parenti nella settimana di Natale, il cimitero il 2 novembre, la passeggiata pomeridiana il 1 gennaio.
Le poche uscite, i “vestiti bene che facciamo le foto”.
Tutto questo venduto per serenità. Tutto questo venduto per normalità.
Alla fine la vita cos’è, non ve lo siete mai chiesto davvero.
L’avete accettata.
Poi siete diventati grandi. Cambia la routine. I figli crescono. Se ne vanno. Poi tornano. Poi se ne rivanno. Avete finito di lavorare. Non avete più il giardino e nemmeno il cane. Le consuetudini del filo di pane tutti i giorni, della scorta di sale e zucchero in casa, del si mangia tutti insieme e la sigla del telegiornale a dare il buon appetito. Le uniche certezze. Come uniche emozioni, diversivi, le bollette da pagare, le riunioni condominiali, una nuova marca di detersivo.
Voi che di sacrifici ne avete voluti sempre fare tanti. E che ora non riuscite a fare il sacrificio di vivere. Gioire. Raccogliere tutto questo seminare che avete fatto. E invece vi chinate soltanto a raccogliere le vostre frustrazioni. I vostri giusto da lanciare ai continui nostri sbagliato.
E io, ingrata e ottusa, che vorrei solo vedervi vivere.
Godere del tempo libero che provate ad occupare in continuazione con obblighi e mestieri che ormai non avete più.
Tempo libero per parlare, viaggiare, scoprire, godere. Del sole, della sabbia, della natura.
Ancora ancorati al non ho tempo che vi ha fatto apparire per tutta la vita così borghesi. Che vi ha fatto sentire vivi. Come se non avere tempo volesse significare essere vivi. Non avete mai fatto il sacrificio più importante. Il sacrificio di usare il vostro tempo per vivere. Avete sempre voluto e preferito essere dannatamente impegnati in qualcosa di dannatamente e illusoriamente importante.
E ora? Ora che diventa ogni giorno più difficile inventarsi qualcosa di così dannatamente importante da rubarvi tutto il vostro tempo? E ora come la gestite la frustrazione? E ora che di tutta quell’apparenza vana non rimane più nemmeno l’ombra? Ora che ci fate con la vostra borghesia? Con la famiglia ipocrita ma perfetta. Con l’amore mai goduto. Mai cercato. Mai domandato? Con quello standard piatto e vuoto?
Sono un’ ingrata quando penso che vi prenderei a schiaffi per smuovervi quello sguardo triste in quegli occhi ormai immobili. Vi scuoterei per rimettere in circolo un po’di linfa.
Provate emozioni, fatevi venire i brividi. Vivete sbagliando! Sbagliate e ridetene! Impazzite felici. Ballate, correte, sdraiatevi sull’erba bagnata, rotolatevi sulle dune di sabbia. Non lavatevi. Uscite con i pantaloni strappati e la camicia stropicciata. Non cambiate le lenzuola. Mandateci a fanculo. Liberatevi dal sacrificio. Per forza sacrificati, per forza di corsa, per forza stanchi, per forza tristi, per forza vecchi.

Respirate!

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